Alfredo Rossi ha scritto per Mimesis Editore il saggio cinematografico “Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata”. L’abbiamo intervistato.
Dopo Lontano dal cinema (Mimesis) e La via lattea (Gremese), usciti nel 2020, l’autore torna con questa opera che va a raccontare uno dei più grandi artisti della storia del cinema italiano e non solo. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo in esclusiva.
Il regista Elio Petri rappresenta una delle figure più emblematiche del cinema italiano: qual è l’elemento principale che differenzia i suoi film da quelli di altri registi suoi contemporanei? Quanto hanno influito la formazione politica del regista e il contesto sociale in cui ha vissuto nelle sue opere cinematografiche?
Mi sono misurato quasi ossessivamente, nel tempo, con il cinema di Petri. Ho conosciuto l’uomo, una cara persona, quando avevo appena trent’anni e sono stato talmente coinvolto e intrigato dalla sua visione sempre più ossessiva sul reale che, tutt’oggi, non riesco a smettere di misurarmi con lui. Ho ripreso il Castoro-Cinema del 1979 nell’ edizione Mimesis del 2015, più elaborata, e sta per essere pubblicato, dall’editore Gremese, per i quarant’anni dalla morte (1982), il mio nuovo libro su di lui. E sottolineo nuovo, perché diverso e a mio avviso più maturo e esaustivo. Scherzosamente non so se, come Flaubert, posso dire “Elio Petri c’est moi”. Sostengo da sempre che parlare del suo lavoro in soli termini di cinema sia riduttivo e banalizzante. Il suo universo fantasmatico e il suo sapere sul mondo sono di tale complessità e natura profetica che, nell’ultima sua geniale fase finale, apocalittica, masochistica e tendenzialmente anale, l’unica presenza che sento di poter avvicinargli nella cultura italiana, cinematografica e non, è quella di Pasolini. Più precisamente del Pasolini degli Scritti corsari, di Petrolio; del Pasolini solo, che vive con altrettanta disperazione intellettuale lo sgretolamento del collettivo sociale e politico italiano. Nel nuovo libro elaboro quanto il cinema e gli scritti di entrambi siano marcati dello sfrangiamento e deriva degli insiemi sociali di riferimento quali portatori di valori reali, cioè effettivi, di gruppo, quello contadino e sottoproletario di Pasolini e quello comunista proletario di Petri. Entrambi sono testimoni e profeti di una catastrofe culturale: la massificazione e decomposizione neo capitalista della struttura sociale rispetto a punti fermi, ai “valori” culturali che non sono più in gradi di interpretare il reale. Dunque cosa differenzia Petri (e Pasolini) dal cinema del suo tempo e da altri registi: tutto. Nel senso che Petri e Pasolini hanno uno spessore di lettura critica del reale senza paragoni: sono interpreti seppur diversi di una mutazione antropologica e culturale che vivono nella sofferenza. Questa sofferenza, questa passione è in Petri del tutto laica, marxista e materialista (marxista e umanistica in Pasolini) e si riflette in uno stile di far cinema e scrittura che si mette continuamente in gioco e tenta di rappresentare un sociale, non nevrotico – come nella sua prima fase – ma psicotico. E’ un percorso intellettuale di rovesciamento in termini analitici che si fa sempre più evidente e lancinante.
Oggi Elio Petri è considerato il regista italiano che più di altri ha saputo fondere la denuncia sociale e l’arte: quanto è importante secondo lei il legame tra la politica e il cinema? Nel primo lungometraggio di Petri, L’assassino, film del 1961, sono già presenti i temi fondamentali che andranno a caratterizzare i suoi successivi progetti. Che cosa rappresenta per il regista il Potere?
Per quanto detto sopra, le categorie di “denuncia sociale” e “arte”, “politica” e “cinema”, possono andare bene per descrivere la fase centrale (A ciascuno il suo, Indagine) del cinema di Petri ma sono insufficienti e fuorvianti, nella loro semplicità, per comprendere il suo cinema da Classe operaia in poi, immerso come è in una problematica di psicosi sociale. Petri “denuncia” un reale scisso, attraverso la ricerca di una scrittura sperimentale, eccessiva che rappresenti questa scissione psicotica. Qui sta la sua politicità, questo è il suo cinema politico, diverso dal cosiddetto cinema politico italiano, questo è il suo scrivere politico. Ricordo che Petri diceva il cinema di Godard, anni ’70, era il cinema politico. Ciò naturalmente non impedisce l’impegno ideologico anti regime e direttamente contro il Potere democristiano (Todo Modo), come avviene per Pasolini. Ma i due sono registi troppo extra vaganti per stile di pensiero per essere assunti come testimoni culturali, sia del Pci che del Movimento studentesco. Di qui la loro solitudine finale.