Marzia Gandolfi è autrice de La forma dell’attore, libro edito da Santelli Editore e che ci porta all’interno della settima arte.
Lei ha una formazione e una solida esperienza di critica del cinema. In questo libro preferisce un approccio tecnico e teorico da studioso o tratta la materia anche dal punto di vista del pubblico?
Il partito preso del libro è arbitrario, di conseguenza lo svolgimento della mia tesi è libero da vincoli ‘scientifici’ e scorre come un romanzo ‘bio-filmografico’. In Italia ci si è occupati poco e male dell’attore, fatta ovviamente eccezione per l’ambiente accademico, i cui lavori e le cui riflessioni sono sovente inaccessibili a un pubblico meno tecnico. Ho provato perciò a mediare tra gli studi dei ricercatori e la produzione di biografie attoriali di bassa lega e consumo. “La forma dell’attore’ compone quattro studi attoriali pensati per un lettore appassionato di cinema, per quello ‘avanzato’ e per quello neofita. Per il primo, la narrazione riscrive la carriera artistica di quatto attori hollywoodiani da una nuova prospettiva, per il secondo apre una porta ideale per familiarizzare con quattro volti sacri.
Come si inserisce il suo lavoro all’interno del filone di studi che riguardano il rapporto tra cinema e arti figurative?
Il mestiere dell’attore è da sempre a cavallo tra diverse discipline teoriche, l’iconologia è una di quelle, una delle strade praticate e praticabili. Ma il mio libro non ha lavorato specificamente in quella direzione o dentro quella tradizione, è decisamente più libero e nasce da un aneddoto simpatico e sicuramente più popolare che scientifico. Avevo notato, nelle conversazioni goliardiche intorno agli attori, che le persone ‘ricordavano’ gli attori per la loro ‘forma’, per la loro silhouette. Un esempio su tutti, per un considerevole numero di amiche, che definirei un campione statisticamente valido, Brad Pitt è pensabile come ‘torso’, declinato poi in addominali, muscoli, tronco e ‘gridolini’. Con Tom Cruise succede lo stesso, per tutti è l’attore eternamente in movimento, nessuno lo figura altrimenti che nel gesto di correre. A quel punto ho cominciato a pensare a quali altri attori mettessero in atto quella stessa strategia ‘formale’ e ho trovato Clint Eastwood e James Gandolfini, silhouette agli antipodi, ma che potevo allo stesso modo interrogare perché l’identità dei loro personaggi è tutta nella forma corporale generale. Le loro performance sembrano la riproposizione corporea di canoni plastici, che ho identificato e argomentato alla luce delle rispettive filmografie. Io credo che la ricerca sul mestiere dell’attore evolva e si realizzi attraverso una messa in valore della specificità del lavoro attoriale e degli orizzonti filosofici, delle metafore con cui questo lavoro viene pensato, letto e interpretato.
Qual è il motivo principale che fa dell’arte dell’attore l’elemento primario dell’arte cinematografica?
Beh, la performance attoriale è indissociabile dalla messa in scena, non esiste regia senza un rapporto forte e originale col ‘gioco d’attore’. L’attore è la forza viva del cinema, la materia stessa del cinema, lo incarna, lo rappresenta, è la prima cosa che lo spettatore vede, è quello che essenzialmente ‘tocca’ e lo tocca.
Questo libro approfondisce il percorso artistico di molti attori alla ricerca di relazioni figurative specifiche: quale è la resa performativa che l’ha colpita maggiormente?
Impossibile sceglierne uno ma se proprio devo, rispondo James Gandolfini. Non solo calza a pennello la robe de chambre del Balzac, ma la maniera che ha di comporre i suoi personaggi a partire da quella figura è impressionante. Gandolfini è rivoluzionario, ha spostato più in là il mestiere dell’attore decostruendo in televisione la figura mitica del padrino. Quella decostruzione è passata soprattutto per il corpo, lontano dall’eleganza aristocratica di Michael Corleone. Tony Soprano è un colosso di immobilità morale che possiamo esplorare intimamente, qualcosa di mai visto prima. Un corpo terrestre, avvolto in una veste da camera e attaccato al suo conforto domestico, che leggiamo come un libro aperto perché Gandolfini ha finito per farlo umano, per farlo assomigliare a noi.
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